a cura di Angela Madesani
Lodi, Spazio 21
2 marzo – 27 aprile 2024
Opening: sabato 2 marzo 2024
Con opere di: Francesco Carone, Pierpaolo Curti, Francesco Del Conte, Sabine Delafon, Federica Di Carlo, Elena El Asmar, Serena Fineschi, Satoshi Hirose, Alberto Messina, Concetta Modica, Luca Pancrazzi, Paolo Parma, Carlotta Roda, Eugenia Vanni, Serena Vestrucci
Dal 2 marzo al 27 aprile 2024, Spazio 21 di Lodi ospita la mostra “Cosmologie”a cura di Angela Madesani, una riflessione sul tema del cosmo operata da 15 artisti: Francesco Carone, Pierpaolo Curti, Francesco Del Conte, Sabine Delafon, Federica Di Carlo, Elena El Asmar, Serena Fineschi, Satoshi Hirose, Alberto Messina, Concetta Modica, Luca Pancrazzi, Paolo Parma, Carlotta Roda, Eugenia Vanni, Serena Vestrucci.
L’affascinante spazio ex industriale lodigiano accoglie venticinque lavori che vanno dalla scultura all’installazione, dalla fotografia alla pittura, di artisti italiani e stranieri, con background e appartenenze diverse, che nella loro ricerca analizzano, interpretano e plasmano il tema della mostra che indaga la conoscenza della struttura e dell’ordinamento dell’universo.

Lontana dalle ricerche di natura prettamente scientifica o filosofica, la rassegna racconta l’approccio degli artisti nei confronti della volta che ci circonda e sovrasta e che per molti versi rimane ancora avvolta nel mistero: «Le opere – precisa la curatrice – sono legate fra loro non tanto da comunioni stilistiche o linguistiche, quanto dalla regia curatoriale, senza pretesa alcuna di dare vita a una catalogazione di artisti che hanno lavorato e che lavorano in tal senso.»
Lo sguardo giovane di Carlotta Roda (1999) cattura attraverso strumentazioni specifiche – un telescopio guidato da uno strumento di precisione che permette di inseguire il moto di un astro nel cielo, e una macchina fotografica che offre una maggiore sensibilità alla luce – il mondo celeste con immagini di grande formato, scatti che diventano poi opere installative dove macro e microcosmo entrano in un dialogo non sempre prevedibile. I lavori fotografici di Francesco Del Conte (1988) guardano al cielo stellato da luoghi diversi tra loro, anche dal punto di vista dell’inquinamento ambientale, tenendo come punto di riferimento le costellazioni. Sono a prima vista romantici firmamenti celesti quelli del fotografo Paolo Parma (1958), svelandosi poi nella realtà quali riprese ravvicinate della polvere. Una simile ambiguità dello sguardo è presente anche nel lavoro di Concetta Modica (1969), in cui fusioni di sepali di pomodoro appaiono come stelle su tavole dipinte.
Una grande tela da biliardo consunta è leggibile come una volta celeste nel lavoro di Francesco Carone (1975), quelli di Pierpaolo Curti (1972) sono paesaggi apparentemente privi di una via di scampo.
La pittura gioca un ruolo portante nella mostra di Lodi, così nei lavori dei toscani Eugenia Vanni (1980), Elena El Asmar (1978), Luca Pancrazzi (1961), Serena Fineschi (1973).
Un chiaro riferimento al mondo galileiano e alle sue scoperte si ritrova nel lavoro che forse richiama maggiormente la dimensione storico-filosofica in mostra, quello di Federica Di Carlo (1984) che attraverso la sua installazione mette insieme arte e scienza. Sempre installative sono le opere del giapponese Satoshi Hirose (1963), che lavora da molti anni sul tema del cielo, e della francese Sabine Delafon (1975), che attraverso materiali ready-made dà vita a una sorta di grande stella con un chiaro riferimento al pittore olandese Rembrandt.
È invece un libro-opera il lavoro firmato da Serena Vestrucci (1986), in cui l’artista utilizza un volume di matrice astronomica di cui scava le pagine per dare vita a un fiore, in un rapporto intenso fra diverse entità.
Alberto Messina (1994) porta infine dei lavori fotografici in cui le protagoniste sono piccole stelle proposte sul muro di una casa.
La rassegna è accompagnata da un catalogo edito da 21 con testo critico di Angela Madesani.
Cosmologie
a cura di Angela Madesani
Testo di Angela Madesani
Cosmologie greche[1] è il titolo di un libro che ha segnato parte della mia vita liceale, in quella che allora si chiamava “prima classico”, l’attuale terzo anno, la nostra insegnante ha deciso che, oltre al manuale di Storia della filosofia, avremmo letto e studiato questo libro su un tema portante di quella storia. Gli strumenti e le conoscenze di quel mondo erano ovviamente limitati, ma determinante è comprendere quanto il rapporto con ciò che sta attorno a noi sia sempre stato imprescindibile da un punto di vista gnoseologico e ontologico.
In questa mostra sono i lavori di quindici artisti con storie diverse tra loro. Per alcuni di loro il tema del cosmo è diretto, per altri è un rimando, per altri ancora è un simbolo per arrivare ad altro. Nell’allestimento della rassegna i lavori non sono stati divisi in gruppi, ma nel testo in catalogo ho cercato di rintracciare una sorta di fil rouge che guidi chi legge in questa riflessione che non cerca certo di offrire risposte, quanto piuttosto di porre nuovi quanto stimolanti quesiti.
Per alcuni degli artisti in mostra il cosmo è un vero e proprio punto di partenza sul quale riflettere così per Carlotta Roda, che è appassionata di fotografia astronomica già dagli anni dell’adolescenza e che si dedica a essa con una strumentazione professionale da circa quattro anni. «Nella fotografia astronomica bisogna considerare i limiti dell’occhio umano, che non può percepire la corretta luminosità»[2].
Ognuna delle sue immagini è frutto di una lunga preparazione, una metodologia progettuale che si pone in aperto contrasto con il mordi e fuggi “aprogettuale” delle foto scattate con i cellulari. Si tratta di una ricerca sul tempo, che ha come punto di riferimento l’uomo, che non riuscirà mai a vedere il presente dell’universo. Le immagini in mostra sono la Nebulosa Crescente, che dista da noi 4.700 anni luce e appartiene alla Via Lattea, mentre la seconda propone le galassie di Bode e Sigaro[3]. La porzione fotografabile del tutto in cui siamo immersi come particelle, è assai limitata e quanto ci è dato vedere non esiste più. Le due opere di Roda in mostra sono composte da tre parti ciascuna: microcosmo, macrocosmo, megacosmo.
Questa, appena descritta, è la prima parte, collocata nel punto più alto dello spazio.
La seconda parte dell’installazione è costituita da immagini di grattacieli di New York, Chicago, Dubai, fotografati di notte, in cui il cielo fa da sfondo[4], è la dimensione relativa all’uomo e alla sua vita quotidiana. Nel punto più basso dell’installazione è uno specchio convesso, dove lo spettatore è invitato a specchiarsi e a prendere coscienza di sè.
Tutto questo porta a dei quesiti di natura esistenziale. Il lavoro sul cosmo è in realtà un’opera sull’uomo, sul nostro limite, sulla nostra pochezza di fronte all’universo.
Skyglow è il titolo di due dei lavori, due dittici, in mostra di Francesco Del Conte. È un lavoro che si muove su due piani. Da un lato c’è l’interesse dell’artista nei confronti di una problematica ambientale, quella dell’inquinamento luminoso. In relativamente pochi anni l’uomo è, infatti, riuscito a distruggere il suo rapporto visivo e non solo con l’universo, con le stelle e le costellazioni. Parallelamente è anche una riflessione sull’utilizzo dello strumento fotografico. Perché il lavoro abbia una valenza scientifica vanno, infatti, rispettate delle regole che coinvolgono i parametri fotografici: il tempo, l’esposizione, la pellicola, l’ottica scelta e anche le condizioni metereologiche devono essere invariate e funzionali allo scopo. Per due volte ha cercato e trovato le stesse condizioni operative annullando l’autorialità. Il punto di riferimento sono due stelle la Vega, fotografata a Bolzano e in Valle Aurina e la Shedar, fotografata a Torino e sul Colle dell’Agnello, un passo alpino al confine tra Piemonte e Francia. In Skyglow ci pare di poter leggere anche un contesto poetico, contemplativo, per certi versi romantico, sicuramente silente.
Il secondo lavoro è costituito dalla foto di uno strumento che fa parte della collezione di strumenti antichi dell’osservatorio di Pino Torinese, il Micrometro filare di Merz, uno strumento della seconda metà dell’Ottocento. Si tratta di un lavoro in cui Del Conte unisce due grandi passioni, quella nei confronti dell’astronomia e quella nei confronti degli strumenti in generale. «Astronomia e fotografia sono due discipline che, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, si sono influenzate notevolmente a vicenda, perché la fotografia ha reso possibile un’osservazione astronomica come mai prima, perché permette di fissare su carta delle immagini che in precedenza venivano addirittura disegnate. Tutte le conoscenze ottiche sviluppate per l’astronomia sono diventate assai importanti anche per la fotografia»[5].
Due sono le opere in mostra di Francesco Carone, nella prima Così lontano, così vicino, con un riferimento a Wim Wenders, si sovrappongono due parti, quella soprastante, realizzata ad acquerello e quella sottostante, stampata in digitale. Il rapporto fra i due linguaggi è serrato e preciso, la parte in acquerello si sviluppa dove non c’è la stampa digitale, che è stata realizzata prima rispetto a quella manuale. Non è casuale la scelta dell’acquerello utilizzato in modo istintivo, alla maniera di Turner, che è la tecnica più irregolare, più incontrollabile tra i linguaggi bidimensionali. In tal senso si pone in diretto contrasto con la tecnica più precisa che ci sia, la stampa digitale. «È vero che la scienza cerca di dare spiegazioni a tutto, ma ci sono cose che non si possono spiegare. La verità assoluta è dogmatica. Così il soggetto dell’opera sono due strumenti, che la rappresentano: il microscopio che ci permette di vedere cose piccolissime e il telescopio che permette di vedere ciò che da noi è lontanissimo. Paradossalmente se io unissi i due strumenti potrei vedere gli atomi delle stelle lontanissime». Si tratta ovviamente di una boutade. Carone propone, a livello fantastico e poetico uno strumento che mette insieme la possibilità di guardare la parte interna, più dettagliata, di cose lontane.
L’altra opera è costituita da un dittico, da due disegni, intitolati Corona australe e Corona boreale, due costellazioni visibili soltanto dai rispettivi emisferi. Si tratta di disegni molto sottili, che propongono forme cristalline. Nei punti di incrocio fra le linee, l’artista colloca dei piccoli diamanti sintetici.
Anche in questo lavoro ci sono l’infinitesimale, il quotidiano e l’altissimo. Si va dal microcosmo al macrocosmo al megacosmo. In tutto questo si respira la relatività, quasi insignificante, della nostra esistenza. In tutto il lavoro non si parla che di stelle, che, come la grafite e il diamante, sono costituite dallo stesso materiale: il carbonio, che si pone in aggregazioni differenti.
Un altro momento della mostra è legato all’iconografia di cosmo e stelle. La stella preferita da Luca Pancrazzi, di cui sono in mostra cinque stampe fotografiche appartenenti alla serie Star System degli anni ’80 intitolata, è quella a 5 punte. La sua nei confronti delle stelle è una sorta di ossessione, che lo ha portato a ritagliare e a conservare tutte le stelle trovate sul suo cammino. E quelli in mostra sono prevalentemente scatti macro di questi ritrovamenti, stampati in bianco e nero su carta baritata, virati e solarizzati. È una raccolta di matrice warburghiana. «Nella prateria dove le tengo sono tornate ad essere tutte selvagge e sorelle, come se appartenessero più al cosmo che alla terra. Di notte corrono in questa prateria infinita e brillano spezzando il confine dell’orizzonte riflettendosi nel cielo altrimenti buio»[6]. La stella a cinque punte è la tipologia che si inserisce in un pentagramma e in un cerchio, lo stesso in cui Leonardo ha inscritto l’uomo inchiodandolo negli stessi punti delle punte della stella, che è uno dei simboli più diffusi e utilizzati. «Essa si contraddistingue per la punta rivolta verso l’alto e si contraddice se capovolta, è la stella dei re magi, di alcuni riti pagani di stregoneria, della massoneria e delle Brigate Rosse, sta sui cappelli della polizia, dei militari, come quelli americani sbarcati in Italia che ne avevano una grande bianca sulle fiancate delle jeep e dei carri armati, è accanto agli alberghi e ai ristoranti, è il logo principale della nostra repubblica e nelle bandiere di tutti gli stati le stelle imperversano, 5 stelle, è il punteggio massimo, celebrazione del pentagono, e proprio Pentalogo fu la prima mostra che ho fatto alla galleria Mazzoli nel 1993»[7].
Sabine Delafon è attratta dalla stella blu, una figura in cui si identifica, che ha utilizzato e che utilizza su diversi supporti. Il piatto è un elemento proprio della sua pratica artistica. Su quelli di ceramica ha stampato i cartelli che acquista dai mendicanti, su quelli di vetro ha inciso leggeri disegni. In mostra sono dei piatti blu oltremare di Delft degli anni ’60 con l’autoritratto di Rembrandt, che Delafon ha scelto, istintivamente, attratta dal colore. L’idea che il grande olandese, nel corso del tempo, si sia fatto parecchi autoritratti, l’ha ulteriormente affascinata, essendo quella dell’autoritratto una pratica anche da lei utilizzata.
Dopo avere dipinto una stella blu attorno al ritratto del Maestro, ha infornato i piatti rompendone alcuni. Le rotture impreviste della ceramica sono diventate il punto di forza del lavoro: la traccia del tempo presente, l’errore che offre ulteriori opportunità.
Talvolta le cose che appaiono in un primo tempo casuali, così non sono. Tutto ha un senso, si pensi alla pratica giapponese del Kintsugi.
Il piatto crea una dimensione intima, casalinga, domestica. «Leggo questa rottura legata all’universo e al destino. Contiene una violenza. In qualche modo mi appartiene, un’imperfezione che porta bellezza»[8]. È una forma di unicità in cui diversi elementi iconografici e formali si uniscono per dare vita a un racconto irripetibile.
Laserie Viaggio di un sepalo di Concetta Modica ha un preciso punto di inizio alla mostra Grand Tour en Italie[9] all’interno di Manifesta a Palermo. È un lavoro complesso con più riferimenti, qui in particolare legato al concetto di migrazione.
L’artista si è così immaginata il viaggio iniziatico di un sepalo, il picciolo verde del pomodoro che vuole diventare stella. La scelta rimanda alla provenienza americana del pomodoro e alla presenza in Italia di grandi campi di pomodori in cui lavorano quasi soltanto migranti. Il viaggio del sepalo diviene una sorta di fiaba. In un primo momento Modica utilizza, come supporto, una tavoletta di terra solidificata per giungere poi all’uso dell’affresco su cui pone le fusioni dei sepali dorati con foglia d’oro zecchino. Sempre inizialmente ha utilizzato lo zolfo che è una medicina per le viti e le piante di pomodoro. Un tempo in talune zone d’Italia si chiamava pietra celeste perché aveva un colore simile a quello del cielo. Lo zolfo, però, ha particolari reazioni chimiche, poiché diventa nero a contatto con l’affresco. Attualmente utilizza un semplice pigmento blu. È il suo un lavoro poetico che si appoggia a dimensioni diverse in cui attraverso la semplicità degli scarti di un pomodoro si riesce a dare vita alla potenza del firmamento. Modica è particolarmente affascinata ai generi della storia dell’arte. Qui ci troviamo di fronte a
Il viaggio di un sepalo di pomodoro per diventare stella, ritratto di una notte: 13 marzo 1781 Sir William Herschel scopre Urano e Il viaggio di un sepalo di pomodoro per diventare stella, ritratto di una notte: 2 ottobre 1608 – Hans Lippershey deposita il brevetto per il primo modello di telescopio. In rete esistono infatti i cieli di tutte le notti, sino a illo tempore, per cui l’artista sceglie un particolare accadimento e lo ritrae attraverso la sistemazione dei sepali sul supporto.
Le 9 piccole immagini di Alberto Messina propongono i dettagli con le stelle della facciata del Planetario di Milano, un edificio del 1930, finanziato dall’editore svizzero Ulrico Hoepli e progettato dall’architetto Piero Portaluppi. L’artista ha, tuttavia, cercato di decontestualizzare le stelle, di sospenderle in una dimensione altra. In tal senso contenuto e decorazione del contenitore entrano in fitto dialogo. Il marmo bianco con cui sono state realizzate le pone in evidente risalto rispetto alla superficie. Sono immagini dai toni alti, come quelle dell’amato Giuseppe Cavalli, realizzate in laboratorio proprio come si faceva negli anni in cui è stato eretto l’edificio. È il cielo del centro di Milano, dove le stelle non si vedono mai. Messina le ha colte durante una passeggiata da flâneur contemporaneo, le ha colte, le ha guardate attentamente, ne è rimasto sedotto ed è tornato a fotografarle.
La dimensione è poetica. Sono come versi brevi e intensi in cui tutto è concentrato. Del resto il grande Alec Soth scrive che la cosa più prossima alla fotografia è la poesia: e qui ci siamo.
Ritagli di tempo Libro ritagliato, tre settimane, 2024 di Serena Vestrucci nasce come un passatempo, rigorosamente realizzato a casa, e non in studio, nei momenti liberi. Sono oggetti che devono mantenere una connotazione che si pone tra il lavoro e il non lavoro, frutto di una certa libertà poietica. Sono costruiti nei tempi di inazione prettamente lavorativa, come direbbe Byung Chul Han, che a questo tema ha dedicato il suo più recente studio pubblicato nel nostro Paese. Il libro in oggetto si intitola La luna ci guarda di Enrico Medi. È un volume del 1971, che raccoglie informazioni a caldo sull’allunaggio ed è accompagnato da un repertorio iconografico sul tema. La sua attività, per realizzare questi libri opera, è quella di scavare nella profondità fisica del libro, così da creare delle forme che attraversano le pagine da un punto di vista della profondità. Si tratta di un lavoro sul passaggio sia da un punto di vista concettuale che formale.
La scelta del libro da parte dell’artista è relativa a due punti: l’argomento trattato ma anche la tipologia del volume, che deve essere lavorato in un certo modo. Il suo, in tal senso, è un lavoro di tipologia materiale ed esistenziale al contempo, dove l’artista compie un’attività di tipo esperienziale. Il tempo a disposizione diviene, in tal senso, determinante, è la misurazione della sfera temporale, data proprio dal lavorio che si riesce a compiere da una pagina all’altra.
Di Elena El Asmar è in mostra un arazzo dal titolo Rêverie (2024) in cui il paesaggio di riferimento, nonostante il chiaro riferimento di ordine onirico, è la realtà, in particolare un paesaggio notturno salentino. Il disegno delle stelle sia di quelle tessute, che di quelle di ottone non corrisponde, tuttavia, al cielo di quel momento[10]. C’è, inoltre, in mostra un dipinto a olio dalla serie Spargo, lancio, divido, cospargo (2023). In tutti e tre i lavori sono presenti delle stelle, una modalità per spingersi verso la dimensione infinita dell’opera, verso lo spazio della nostra immaginazione, di tutto ciò che va oltre il limite del perimetro. Le stelle fanno parte di una dimensione assoluta in cui possiamo viaggiare, privi di limiti spazio-temporali. «Le stelle sono quello che si può inventare guardando un quadro, la storia scritta tra le righe di un testo pensato per immagini. Le stelle in fondo riguardano tutti e davanti al cielo ciascuno sviluppa a suo modo una propria biografia sentimentale e fantastica».
Nel piccolo e assai delicato Spargo, lancio, divido, cospargo il punto di partenza può essere identificato nel cielo della padovana Cappella degli Scrovegni di Giotto, in cui le stelle sono il disegno di altre stelle già disegnate. È come se l’artista volesse guardare attraverso gli occhi del pittore medievale con un evidente riferimento alla storia dell’arte.
Due dei dipinti in mostra di Pier Paolo Curti sono costellazioni pure, nel terzo è invece
una presenza di terra. Per l’artista si tratta di una semplice manifestazione fenomenica. Si tratta dell’imitazione del creato. «Le costellazioni nel mio lavoro non arrivano da grandi argomentazioni, quanto piuttosto da riproposte di un cielo che nella realtà non ci appartiene. È per me difficile parlare della costellazione pura, si tratta di un piccolo fuori tema del mio percorso»[11]. In realtà anche la presenza dell’angolo di terra è solo un riferimento a un paesaggio possibile, che rimanda alla sua ricerca più facilmente riconoscibile. Sono opere molto realistiche dal punto di vista dell’osservazione, per nulla da quello della restituzione. In tutto questo l’artista entra in una dimensione di curiosità, di voglia di sapere, di indagare, che si fa sempre più forte di fronte a un mistero che proprio grazie alle spiegazioni si infittisce. Curti è affascinato dall’insondabilità, dalla straordinarietà di quanto si trova di fronte, lui grande camminatore, conoscitore della natura. Il suo percorso per arrivare alle costellazioni è fatto di suggestioni, in una dimensione che trova le sue radici nella sfera delle meraviglie e del mistero.
La quotidianità con i suoi riferimenti è uno dei punti nodali della ricerca di Satoshi Hirose, che qui propone Untitled 2024, un lavoro costituito da un paio di pantofole sulle quali si è depositato il bianco della pittura caduta dal pennello, con il quale l’artista ha lavorato. La casualità della posa ha dato vita a un cielo stellato. L’opera è il frutto dell’esperienza. Il microcosmo domestico ha accolto il macrocosmo dell’universo.
Untitled del 1995 è anch’esso un lavoro sul tempo, è un pezzo di silicone nero lasciato per cinque anni nello studio dell’artista, che, infine, lo ha tagliato e aperto. A quel punto lo ha coperto di puntini bianchi che paiono stelle in un cielo notturno.
Il terzo lavoro proposto è Mythology of the Beans (Cane) del 2010. Il bastone è simbolo di anzianità, di saggezza e di sapienza. «Nei Beans Cosmos fagioli, piccole sfere realizzate con mappe accartocciate, pezzi di plastica, pastiglie, pezzi di oro. Metalli preziosi fluttuano allo stesso modo delle sfere di plastica, così come i fagioli nella loro umiltà. Questo ricorda agli spettatori un piccolo cosmo immaginario e allo stesso tempo si tratta di un simbolo sociale»[12].
Quelle che parrebbero delle mappe celesti sono in realtà delle xilografie. Eugenia Vanni ci è arrivata per una via che ha a che fare con la storia dell’arte. Alla Biblioteca degli Intronati di Siena, la direttrice di allora le mostra una stampa alchemica di Domenico Beccafumi con un buchino, il segno di un tarlo. Dopo qualche tempo Vanni si accorge che l’asse divisoria dell’armadio che sta smontando è tarlata. Si creano dei punti vuoti. A quel punto l’artista inchiostra l’asse e la pone sotto il torchio. I fori dei tarli sono talmente profondi che l’inchiostro vi si inserisce restituendo, una volta stampata, un’immagine quasi fotografica in cui qualsiasi forma di autorialità si fa da parte.
Il suo è un lavoro sul tempo, sul suo scorrere inesorabile, sui segni che diventano tracce, registrazioni, indici proprio come nella fotografia analogica.
Due tavole solo apparentemente preziose, una d’oro e una azzurra, cielo e terra sono i soggetti dei due lavori in mostra di Serena Fineschi, che usa servirsi di materiali poveri per la realizzazione dei suoi lavori. La tavola azzurra è fatta di cartoncino Bristol masticato, sputato, appallottolato e quindi lanciato con una cerbottana sul cartoncino stesso. La materia mangia se stessa, si riaccumula e si raggruma. Il fondo oro è fatto con le carte dei Ferrero Rocher, preziose solo in apparenza, carte che accartocciamo e buttiamo. Il procedimento utilizzato dall’artista è lo stesso che si usava nella pittura antica del XIV e del XV secolo con la colla di coniglio e il bolo: l’apparente scarto diventa la preziosità della storia dell’arte. È tutta apparenza così come nel nostro tempo, in cui siamo uccisi dal troppo. Moriamo di troppo, ma non digeriamo nulla: non metabolizziamo.
«Tanti dei miei lavori visti dal lontano sono rassicuranti, quando ci si avvicina, però, è come se ci fosse uno svelamento»[13]. L’idea è quella di riportare il gioco di Paolo Uccello, sperimentatore giocoso, nella composizione. Gioco e battaglia per lui sono stati temi fondanti, così nelle tre versioni della Battaglia di San Romano, in cui i senesi sono stati sconfitti dai fiorentini. Paolo Uccello crea un’atmosfera da “autunno del Medioevo”, così Johan Huizinga, in cui la battaglia diviene giostra. Vi è un gioco di apparenze che contraddistingue il nostro mondo di decadenza. Si tratta di una sorta di paradigma, come quando Fineschi fa uso del chewing gum sputato, che da lontano appare come altro da sé. «Con questo dittico vorrei parlare di cielo e terra, di materia e spirito. Nelle tre versioni di Paolo la parte del terreno viene giocata tra i rosa e i celesti e il materiale masticato, nell’accumulazione di colore su colore, è una ripetizione dello stesso gesto»[14]. Una ripetizione che ci conduce alle ossessioni della nostra complessa esistenza.
La polvere mossa dall’aria si posa sulle superfici di ogni luogo. Essa non è altro che un disfacimento di qualsiasi cosa, compreso l’uomo. Le sequenze di immagini di Paolo Parma ne mostrano il movimento e l’accumulo, come su un piano cartesiano dove un asse è il tempo: sovrapporsi e fermarsi di detriti, incongruità, perdite. Dalla costante erosione della terra e dei corpi deriva una materialità minima, incoercibile. Del resto quanto vediamo del cielo non sono che detriti.
Le stelle che emanano luce per anni e arrivano a noi, non sono altro che cose morte che hanno perso soggettività e si presentano a noi con un’altra natura. Sono l’essenza a cui ritorniamo e che ci rappresenta, un po’ come l’alito del fumatore secondo Duchamp nella dimensione dell’infrasottile. È la testimonianza di quanto è stato, di quanto abbiamo vissuto. L’assenza di polvere su una superficie che prima ospitava un oggetto, rappresenta la realtà dell’oggetto nella sua integrità.
«La polvere, monade della nostra soggettività, esito della perdita, è sacralizzata in un templum minimale: eredità dell’estetica delle rovine e riflessione sul continuo farsi e disfarsi della memoria affidata alle cose, ridotta a forme minute che danzano in una lama di luce filtrata da un’imposta socchiusa, eppure pronte ad aggregarsi nuovamente, in un nuovo disegno»[15]. La polvere è una memoria collettiva è ciò che resta di noi, che ci rappresenta, anche se viene persa qualsiasi individualità. La presenza della polvere raffigura una perdita infinita, al di là della nostra coscienza. «Polvere sei e polvere ritornerai, così la Genesi parla dell’origine dell’uomo, della sua sostanza e del tempo del suo esistere. Tra la polvere sta la nostra vita, il mistero che la avvolge, gli attimi che passano inosservati. Spogliata della sua individualità, ogni cosa prende la forma di polvere, metafora dell’usura, del disfacimento, della nostra inconsistenza. Essa si muove, passa, ricopre e segna il nostro passaggio, come una forma silenziosa di memoria collettiva»[16]. La natura spirituale del lavoro, in cui il tema delle cosmologie è inteso in senso ampio, sottolinea la dimensione di portata esistenziale della raffinata ricerca dell’artista.
I fear di Francesco De Molfetta, con un titolo che richiama l’elegante mondo Apple, non è altro che la fusione in bronzo di un cellulare, compreso di filo per la ricarica. Ma lo schermo non è tranquillo, è una bocca dentata che pare mordere chi vi posa l’orecchio, è il buco nero della comunicazione. Cosa c’è dall’altra parte? Uno dei nostri mille amici dei social? Ci sono i follower? Il cui solo nome mette paura. Lo schermo è una caverna che ci risucchia, come da bambini la pericolosa casa della vecchia strega di Hansel e Gretel. La minaccia viene da una dimensione altra. La nostra identità è dilaniata dalle fauci dell’oggetto. Usiamo le parole senza conoscerne realmente il significato. Che cosa significa buco nero in astronomia? Si tratta di un corpo celeste con un campo gravitazionale così intenso che dal suo interno non può uscire nulla, nemmeno la luce. E qui, infatti, la luce non c’è. Si avverte un certo nichilismo.
Le fattezze sono quelle di un serpente a sonagli, che solleva la testa e minaccia un eventuale interlocutore. È il grande enigma della virtualità e dell’immateriale. È un aspetto distruttivo di mutazione della materia che avviene nel momento in cui ci si avvicina alla virtualità, a questo mondo fittizio ideale, immateriale, non corporeo, senza confini. È una spazialità contemporanea, un’altra spazialità. Ancora una volta l’oro, che suscita desiderio di possesso.
Si crea una distanza evidente. De Molfetta parla in tal senso di velo di Maya in una sorta di occultamento dei fenomeni. È il mistero della scienza, della conoscenza, della nostra stessa esistenza alla quale non è sempre facile attribuire un senso.
[1] F.Franco Repellini, Cosmologie greche, Loescher, Torino, 1980.
[2] C.Roda in conversazione con chi scrive, gennaio 2024.
[3] Le due galassie Bode e Sigaro sono rispettivamente distanti da noi 11.740.000 anni luce e 11.420.000 anni luce.
[4] Per realizzare queste foto Roda utilizza un filtro antinquinamento che fa emergere la temperatura della luce.
[5] F.Del Conte in conversazione con chi scrive, febbraio 2024.
[6] L.Pancrazzi, appunti di lavoro, 2024.
[7] Idem.
[8] S.Delafon in conversazione con chi scrive, febbraio, 2024.
[9] Si tratta di un progetto di Michela Eremita.
[10] Le stelle sono posizionate all’interno dell’opera in base a necessità formali e poetiche.
[11] P.P.Curti in conversazione con chi scrive.
[12] A.Madesani in Satoshi Hirose Pharmakon, Prearo Editore, Milano, 2023; p.180.
[13] S.Fineschi in conversazione con chi scrive, dicembre 2023.
[14] Idem.
[15] P.Parma, annotazioni sul lavoro, 2023.
[16] Idem